“Gli dei cavalli vennero al mondo quando videro che gli umani soffrivano molto perché non sapevano come vivere gli uni con gli altri sotto il cielo azzurro, tra i campi verdi e le montagne nere. Ma una volta che gli dei cavalli furono arrivati sulla Terra, si accorsero che gli umani erano in condizioni ben peggiori di quanto avessero pensato, e che la loro missione sulla Terra non sarebbe stata una mera osservazione, ma sarebbe consistita nel vivere con gli umani. I cavalli promisero di stare con gli esseri umani finché tutti fossero riusciti a diventare leali, resistenti, profondi e pacifici come i cavalli stessi”.
Clarissa Pinkola Estés, I desideri dell’anima, Frassinelli 2014
Le parole-chiave di questa storia, e della ricerca cui si ispira, sono: “animali”, “salute degli indigeni” e “narrazione”. E un po’ alla volta capiremo che cosa le lega.
Siamo in Canada, in una provincia che prende il nome da uno dei fiumi più importanti della regione: Saskatchewan, “il fiume che scorre veloce”, che nasce sulle Montagne Rocciose. Con la colonizzazione dell’area da parte di francesi e inglesi, vennero tirate quattro linee rette attraverso foreste di betulle, grandi praterie, montagne e dune sabbiose, dando forma ad un quadrilatero di oltre 650000 chilometri quadrati. Naturalmente l’arrivo degli europei non si limitò a disegnare topografie prima insesistenti: le comunità native che vivevano lì da generazioni furono in parte sterminate, in parte private della terra e della libertà, costrette in riserve e sradicate dalle loro tradizioni.
Il peso che tutto questo ha avuto e continua ad avere sulla salute fisica e mentale degli indigeni, per un non-indigeno è comprensibile fino ad un certo punto. Per noi, nipoti della rivoluzione industriale e tecnologica, il processo di allontanamento fisico, emotivo e spirituale dalla natura è iniziato talmente tanto tempo fa, che non colleghiamo più il nostro malessere e il disorientamento collettivo a questa cronica, radicale separazione. Invece,
“Per la maggior parte dei popoli indigeni, la terra è tutto. Offre loro cibo e riparo, forgia e alimenta le loro lingue, le loro visioni del mondo e la loro stessa identità. È il luogo dove sono sepolti gli antenati e l’eredità da lasciare ai figli. In parole povere, la terra sono loro stessi (…). L’identità di un popolo indigeno è frutto di generazioni di relazioni simbiotiche con l’ambiente circostante. Quando sono sfrattati a forza dalle loro terre, il cambiamento repentino è spesso troppo radicale perché sia accettato razionalmente e sopportato spiritualmente. (Fonte: Survival.it)
Chi oggi si occupa della salute delle comunità indigene lo sa bene. La sofferenza per la separazione dal proprio contesto naturale, la costrizione in stili di vita diametralmente opposti a quelli abituali e tradizionali, la perdità del senso di identità di cui il legame fisico e spirituale con il mondo naturale era parte fondante, hanno portato a tassi altissimi di alcolismo, depressione, suicidi. Anche tra i più giovani.
E qui inizia la nostra storia.
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2 risposte
Veramente interessante questa ricerca canadese! Oltre che per i risultati del lavoro delle tre ricercatrici (Ginnis ecc.), anche per il modo in cui hanno condotto l’indagine: integrandosi nell’ambiente, nella cultura e tradizione indigena e grazie a un atteggiamento decolonizzato, sono riuscite a coinvolgere quella comunità in modo davvero fruttuoso e… sorprendente (almeno per me)! Quello che mi ha molto colpito è la concezione della relazione umani-animali che esce dalle storie dei nativi. Da noi si è perlopiù abituati a considerare gli animali in modo strumentale, come risorsa economica o, soprattutto in città, ‘affettiva’, di compagnia, (pet therapy a parte). Scoprire che in altri tempi e in altri contesti è stato/è possibile un rapporto ‘paritario’ con gli animali, che questi possono anche essere “…guide, aiutanti, maestri, protettori e guaritori”, e fonte di messaggi ‘curativi’, è veramente una scossa potente alla mentalità tradizionale… .
Grazie Mycelica, per aver tradotto e reso disponibile questa ricerca!
Sono rimasti solo i popoli indigeni a mostrarci un altro modo possibile. O meglio a ricordarcelo: non ci colpirebbe in questo modo leggere certe ricerche se non conservassimo la memoria filogenetica di una relazione unitaria con la natura. Se non conoscessimo già in fondo questa possibilità e la nostalgia di quando eravamo parte di un Tutto insieme a piante e animali, che come membri della stessa famiglia avevano qualcosa da insegnarci e la cui presenza nella nostra vita ci era necessaria per stare bene. Un invito alla lettura: “Ecologie native” di Emanuela Borgnino, Ed. Eleutehera. Grazie del commento!