Storie che curano, ispirano, connettono…

Fioriture: donne in rinascita

Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia, ma non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetrica dice «Non urli, non è mica la prima». Imparano a cantare piangendo, a suonare con un braccio che pesa come un macigno per la malattia, a sciare con le ossa rotte. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del deserto, dei mari sui barconi, della città a piedi su e giù per gli autobus. Le donne hanno più confidenza col dolore. Del corpo, dell’anima. È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser quasi amico, è una cosa che c’è e non c’è molto da discutere. Ci si vive, è normale. Strillare disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformarlo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza. Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte perché lasci fiorire qualcosa. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo sa.

Nella trama muschiata di Mycelica, “Fioriture” racconta storie di donne rinate dopo aver dovuto e/o voluto (due verbi spesso inscindibili) attraversare una personale forma di morte-trasformazione, di viaggio iniziatico e ritorno. Un motivo narrativo, questo, celebrato nei riti delle culture antiche, reso eterno nei miti e riaffiorato nelle fiabe1con i linguaggi propri di ogni tradizione. Ma anche il modo di accadere dell’esistenza nel suo naturale dispiegarsi, per il quale periodicamente qualcosa (di noi) muore, si trasforma e dà vita al nuovo, in un avvicendarsi di stagioni interiori speculari a quelle della natura.

Mentre scrivo questa introduzione è autunno, la luce sta velocemente lasciando terreno al buio e gli alberi, i profili delle montagne, lo stato d’animo leggermente malinconico raccontano, o meglio sono, la ciclica irresistibile discesa che ancora una volta ci porterà nella parte oscura e fredda dell’anno… e di noi.

Nelle vite di queste donne, ad un certo punto è sceso un durissimo inverno. In alcuni casi subìto, nella forma di una malattia grave, di un lutto inatteso, di un evento a cui non ci si è potute sottrarre; in altri cercato, invocato, rimandato da chissà quanto: un cambiamento vitale necessario. Quell’inverno è stato per tutte l’attraversamento di una soglia: “la mia vita prima di oggi, la mia vita dopo”. E senza quell’attraversamento – sofferto, agognato, combattuto, solitario, temuto, abbracciato, odiato – nient’altro sarebbe stato possibile: nessun germoglio, nessuna fioritura.

Spesso è il corpo con i suoi sintomi a segnalare che è tempo di morire ad una visione di sé e della vita dove il sentire non ha più spazio nè dignità di esistere. Il sentire come capacità di connettersi: con i desideri, con i sogni, con il divino, con la natura, con gli altri. Per molte donne rispondere alla chiamata d’aiuto del corpo, fermarsi prima che il corpo le fermi, è l’inizio della crisi di guarigione.

E della discesa. Il viaggio dell’eroina2 non è lo stesso per tutte ma alcuni dei paesaggi interiori che attraversa ricorrono: storia dopo storia, la rinascita del femminile mostra proprie qualità specifiche di cui le intervistate sono pienamente consapevoli. A tutte è stato chiesto quali differenze vedano nel modo in cui donne e uomini affrontano i cambiamenti più radicali; dalle loro risposte traspare la tensione ideale tra rispetto della diversità e coscienza dell’unicità in quanto donne. Una volta che la crisi di guarigione ha rianimato, letteralmente restituito il soffio all’istinto ferito3, (ri)affiora una viscerale, indomita memoria di cura che riconoscono – ricordano – come l’impronta matrice del femminile. Dove “cura” può declinarsi in “connessione”, “intuito”, “legame con la terra”, “spiritualità incarnata”, “sentire-sapere” e molto altro.

Lascio a loro la parola.

1  Corinna Zaffarana, L’archetipo nel mito e nella fiaba, Ester 2018

2  Maureen Murdock, Il viaggio dell’eroina. La risposta femminile al viaggio dell’eroe, Audino, 2010

3  Clarissa Pinkòla Estes, Donne che corrono coi lupi. Il mito della donna selvaggia, Frassinelli 2000

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