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Il canto dell’Ayahuasca

Salvezza e perdizione, panacea e droga, diavolo e acqua santa: l’Ayahuasca attira su di sè le proiezioni più nefaste e le più salvifiche. Perché? Questo libro ci aiuta a capirlo.

Riccamboni S., Bonani M.M, Il Canto della Foresta. Ayahuasca e medicina sciamanica, Mauna Loa edizioni 2022

“Le piante maestre sono anche piante di potere e il potere non è né buono né cattivo, è potere: dipende da chi lo usa e per che cosa lo usa. Per questo insistiamo sul fatto che coloro che sentono la chiamata a condividere queste piante maestre durante le cerimonie devono essere persone le cui vite devono orientarsi verso la virtù e l’amore, non verso la ricerca del potere. Perché il primo e vero potere è sapersi controllare, gestire le proprie emozioni e non fare del male a nessuno. È questo che fa la differenza tra la consapevolezza e l’inconsapevolezza, tra lo stregone e il guaritore”.

Alonso de Rio, da: “I quattro altari. La via dell’Ayahuasca”, Macrolibrarsi 2017

Le piante ci precedono di millenni nella vita sulla terra: hanno preparato il terreno perché altre forme di vita potessero cominciare a svilupparsi, dalle più elementari alle più complesse. Uno scienziato descriverebbe questo lentissimo processo in termini di evoluzione di composti biochimici, un indigeno direbbe che le piante ci precedono per saggezza e forza spirituale.

Per i popoli nativi la forza curativa di una pianta non è riducibile a quello che noi chiamiamo “principio attivo” e che estraiamo o sintetizziamo per curarci. Per la saggezza indigena, ogni pianta (e animale e roccia…) ospita uno spirito vegetale dotato di intelligenza, intenzionalità e potere, con il quale è possibile imparare a comunicare. Una visione che richiama un lontano passato in cui ci affidavamo in tutto e per tutto all’insegnamento e alla medicina della natura, e in cui ogni azione del singolo o della comunitá includeva il mondo naturale: comprendere le leggi dell’esistenza, chiedere protezione, curare malattie, celebrare i passaggi di vita, morte e rinascita. Imparare a camminare nel cosmo vivente.

Gli indigeni della Foresta amazzonica hanno l’umiltà e la saggezza di chiamare le proprie medicine vegetali Piante Maestre perché portatrici di insegnamento e conoscenza: di sé, della realtà, dell’universo, del tempo e dello spazio, della connessione tra tutte le cose. E anche Piante di Potere perché restituiscono all’essere umano la sua innata capacità di Vedere, Comprendere, Sapere.

E Guarire.

“Connessione” è la parola chiave, quella su cui ormai da decenni insistono tutte le teorie del benessere, della salute e della malattia. Quelle moderne, perché quelle tradizionali la conoscono da sempre. Ci disconnettiamo, di fatto, interrompendo una fondamentale comunicazione: con le nostre emozioni, con i nostri desideri e talenti, con la natura che ci è matrice. Ci disconnettiamo e poi ci stupiamo di ammalarci, di sentirci vuoti, sfiniti, o al contrario iperattivi e incapaci di fermarci. E ci curiamo riconnettendoci – ad aspetti di noi che abbiamo sacrificato per sopravvivere, alla nostra voce interna, al micelio di relazioni che ci nutre, alla natura che non è “altro” da noi, al silenzio della quiete interiore.

Tradizionalmente, le piante maestre vengono utilizzate in forme rituali che rinnovano il legame con la comunità e con la natura: con la terra, il cielo, gli antenati (la saggezza che ci precede), la vita stessa. La dimensione rituale-cerimoniale è fondamentale e inscindibile dal processo di cura e questo riflette una visione integrata e olistica dell’essere umano, della saluta e della malattia: se la malattia è la rottura di un equilibrio spirituale più grande, la guarigione richiede il ripristino di quest’equilibrio e il rito è il linguaggio per ricomporlo.

Imparare dai popoli indigeni tuttora esistenti, sentire il richiamo di quella matrice ancestrale, non significa aspirare a vivere nel cuore di una foresta ma tornare a guardare noi stessi e il mondo da una prospettiva che non sia più di dominio, controllo e sfruttamento ma di reciproca conoscenza e coesistenza – con i nostri sentimenti e pensieri e con l’ambiente naturale e relazionale.

Sono numerosissime le culture che mantengono pratiche tradizionali per tenere viva questa consapevolezza. Per loro il tempio è la foresta, la natura lo sfondo inseparabile dell’esistenza e le piante curative sono forze spirituali prima ancora che principi attivi. Molte di queste tradizioni includono nei loro rituali sostanze benefiche per la fisiologia del corpo, lo stato emotivo e la coscienza spirituale.

Esistono organismi vegetali conosciuti da millenni dai guaritori tradizionali di molte parti del mondo, e da diversi decenni anche da medici, psichiatri, etnobotanici, biologi che ne hanno testato gli effetti su di sé e sui propri pazienti, che hanno il potere di favorire nell’essere umano l’esperienza dell’unità tra le parti di sé e con il Tutto: Universo, Dio, Grande Spirito, Wakantanka… a seconda della propria cosmologia.

Il loro potere terapeutico sul piano fisico e psichico oggi è un dato di fatto anche al di fuori dei contesti nativi tradizionali ma è anche oggetto di dibattito legale, trattandosi di sostanze dichiarate vietate in alcuni paesi. Alcune di queste negli anni ‘70 sono state massicciamente utilizzate per la loro azione psicotropa (di modifica del funzionamento cerebrale, meccanismo alla base di tutti gli psicofarmaci) e psichedelica (di espansione di coscienza e acuità percettiva) che ben si sposavano con le aspirazioni del movimento di liberazione di quegli anni, con la ribellione alle regole omologanti, alle limitazioni della libertà espressiva e di pensiero perché mediavano chimicamente l’esplorazione di altre modalità di relazionarsi con se stessi e con il mondo.

Per distinguere il valore curativo di queste sostanze dall’abuso che ne è stato fatto, gli studiosi hanno introdotto un termine che ne ribadisse la natura di medicine sacre: “enteogene”, dal greco “en theòs” (“in Dio”) e “ghenestai” (generare), a indicare l’esperienza di generare il divino in sé. Da qui l’enteobotanica, o studio degli enteogeni.

Parlarne da un punto di vista puramente biochimico non solo ne sminuirebbe il valore di “motori alchemici” di un processo evolutivo che va molto al di là dell’assenza di malattia, ma ci manterrebbe all’interno del modello medico che pensa e agisce per parti frammentate. Nella visione sciamanica dell’essere umano non può esservi benessere o guarigione se non si diviene più coscienti. Più coscienti non nel senso di più mentali anzi, più percettivi e intuitivi, più presenti alla realtà: più svincolati dalla mente così da poter accedere a quello che nell’uso degli enteogeni è descritto come stato di coscienza superiore. E da quello spazio, non paragonabile a nessun altro, anche la guarigione può avvenire.

La Regina della Foresta amazzonica è l’Ayahuasca la “liana dei morti” o “degli spiriti”. Non basterebbero tutti i libri esistenti su questo argomento per esaurirne il mistero; e d’altra parte il mistero è più territorio della poesia che dell’analisi. “Il Canto della Foresta” racconta i suoi benefici per ciascun piano dell’essere: fisico, psicologico, emotivo e spirituale. Riporta i dati oggettivi di una letteratura scientifica ormai consistente, relativi in particolare alla salute fisica e mentale; per proseguire poi attraverso i piani meno misurabili e più soggettivi del pensiero, delle emozioni, della coscienza spirituale. Lì dove il terreno solido della dimostrazione viene meno e dove un altro tipo di esperienza – quando si sia pronti ad accoglierla – può aprirsi all’Oltre, dove il senso di appartenenza che noi abitualmente conosciamo in seno alla famiglia, alla società, alla natura, si espande verso gli orizzonti sconfinati del cosmo.

Gli autori sono due psicoterapeuti che facendo ricerca sugli stati di coscienza si sono interessati all’utilizzo rituale e terapeutico delle piante maestre, in contesti cerimoniali tradizionali e non. Nel libro offrono anche degli accorgimenti per accostarsi a questo tipo di esperienza con sicurezza e consapevolezza, nella convinzione che l’ayahuasca non sia per tutti, non in qualunque momento, e che questo dipenda in minima parte dalla medicina e in massima parte da chi la utilizza e da come viene utilizzata.

Nel 2022 in Italia l’Ayahuasca è stata inserita nella tabella delle droghe, una scelta politica che sembra non tenere in alcuna considerazione i risultati della ricerca scientifica e degli studi clinici internazionali; o che forse serve a preparare, anche in Italia, il terreno perché (anche) questo spirito vegetale sia ridotto a principio attivo e commercializzato dall’industria farmaceutica. Il dibattito su pro e contro di questo “salto di specie” è aperto.


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